Quando il coaching non è una scelta del coachee, ma piuttosto una necessità imposta da circostanze particolari. In questo articolo esploreremo un fenomeno noto come “vuoto mentale” che può portare a una situazione in cui il coaching diventa essenziale, anche quando la persona coinvolta non ne ha fatto una scelta consapevole. Analizziamo le cause, gli effetti e le possibili soluzioni per superare questa sfida inaspettata.
Di solito il Coachee, cioè il cliente del Coach, ha liberamente scelto di rivolgersi al Coach stesso, oppure ha liberamente accettato una proposta di Coaching da parte sua. In entrambi i casi, è lui che, in prima persona, ha preso coscienza di aver bisogno di qualcuno che lo accompagni in un percorso di cambiamento, di trasformazione. Il che significa, ovviamente, che a monte di ciò si è accorto di aver bisogno di cambiare. E la logica conseguenza è che lui, il Coachee, si accosta al Coaching pieno di aspettative e di voglia di mettersi in gioco. Ma che cosa può succedere se l’idea del suo percorso di Coaching non è venuta a lui, ma a qualcun altro che magari ha un ruolo tale da poterglielo imporre, più o meno gentilmente?
Non si creda che si tratti di un caso improbabile: tutt’altro. Si pensi, a titolo d’esempio, all’adolescente al quale, perché risolva il proprio deficit nello studio, o perché sviluppi comportamenti più adulti e maturi, i genitori hanno deciso di pagare un Coaching e un bel giorno gli presentano un perfetto estraneo, dicendogli: “ecco il tuo Coach!”
Quando il coaching non è una scelta del coachee: dipendente aziendale
Un altro caso, per certi versi assai simile, è quello del dipendente di un’azienda – poco importa qui se si tratti di un impiegato, un venditore, un operaio, un quadro, o un dirigente – che, analogamente, si sente propinare di punto in bianco, dal proprio capo, un percorso di Coaching.
Le reazioni del dipendente, o dell’adolescente, sono facilmente prevedibili. Nella peggiore delle ipotesi, la persona avrà un atteggiamento tra lo scettico e il diffidente. L’adolescente paleserà un comportamento tra la ribellione e la resistenza passiva, dato che come minimo penserà che il Coach sia pagato dai genitori e sia lì per convincerlo di cose che i suoi genitori non sono riusciti a fargli accettare. Analogamente, il lavoratore adulto penserà che il Coach sia pagato dall’azienda per fargli ammettere delle carenze, o per manipolarlo, o peggio ancora per valutarlo e riferire “più in alto” ciò che potrebbe dire sull’azienda.
Conclusioni
Nell’ipotesi migliore, al massimo la persona – indipendentemente dall’età – potrà dare ai genitori o all’azienda il beneficio del dubbio, rimandando un giudizio definitivo. Comunque sia, né l’uno né l’altro partirà avendo consapevolezza del proprio bisogno di evoluzione: caso mai, partirà mettendo il povero Coach sotto esame.
Se il Coach non terrà conto di questo, o peggio ne sarà del tutto inconsapevole, si metterà a far domande al Coachee come se niente fosse. Domande magari potenti, in teoria, del tipo: “come vorresti sentirti in quella situazione?”, “cosa ti fa pensare questo?”, che però riceveranno risposte vuote, susciteranno monosillabi reticenti anziché discorsi sinceri.
Questo problema, del rischio della demotivazione del Coachee, non si può pensare di affrontarlo a Coaching già iniziato. Sono dinamiche da disinnescare prima. O il Coachee inizia consapevole di cosa il Coaching sia, di cosa deve aspettarsi da esso, di cosa esso chieda a lui come persona in termini di impegno, e accetta tutto questo perché gli è stato fatto condividere che ne ha bisogno; oppure, se continua a ritenere di non averne bisogno, o non ha idea di cosa implichi, le conseguenze sono pressoché inevitabili.
Il Coach esperto, queste cose, le sa: e cerca di sincerarsi a priori che la motivazione del Coachee sia rispettata.